Nel 1754 gli Inquisitori di Stato di Venezia venivano a conoscenza che “Pietro de Vettor Furlano facchino in casa di Daniel Miotti sia fuggito seco asportando una copia tratta dai libri del suo padrone circa il segreto di fare lo smalto.” Temendo che divulgasse i segreti “principalmente in Boemia, dove l’arte della fabbrica de Cristalli è si ben stabilita,” ordinavano la sua morte.1
Era veramente necessaria questa azione estrema, perché i boemi avevano qualcosa da imparare dal ricettario, oppure sapevano già tutto?
Sappiamo quali segreti avrebbe potuto divulgare il friulano, perché è giunta ai giorni nostri la copia che Daniele Miotti (1618–1673), nonno del Daniele che aveva fabbrica nel 1754, faceva fare al figlio diciottenne Vincenzo nel 1662—e che avrebbe poi completato nel 16692—del ricettario di Giovanni Darduin, suo suocero.3 Inoltre, il mondo germanico doveva conoscere l’Ars vitraria experimentalis di Johannes Kunckel dalla prima edizione del 1679 (Amsterdam und Dantzig) o dalla seconda edizione del 1689 (Frankfurt und Leipzig).4 Era la versione in lingua tedesca dell’Arte vetraria di Neri pubblicato nel 1612, comprese le note dell’inglese Christopher Merret—che aveva tradotto e annotato l’opera dell’abate e aveva dato alle stampe The Art of Glass a Londra nel 1662—completata con le osservazioni di Kunckel stesso.
Confrontiamo allora le indicazioni che i due ricettari forniscono circa le più interessanti composizioni vetrarie.
Rosso
Le prime ricette del manoscritto di Miotti sono di “rosechiero,” rosso trasparente ottenuto dal rame in sospensione colloidale.5 Alcune preparazioni prescrivono di aggiungere al vetro fuso scaglie di ferro e ossido di rame rosso; altre aggiungono minio, stagno calcinato o vetro lattimo (contenente stagno), ramina rossa e ossido di ferro. Il colore non si sviluppava subito ma era necessario un ulteriore trattamento termico.6
Un trattato sulla fabbricazione delle vetrate, databile tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, conservato all’Archivio Comunale di Assisi,7 annotava che “el colore rosso viene dalla Mangna e non se sa di che se faccia quello colore, ma io te dico che quello colore rosso sì è solamente da l’una de le parte e non è misto nello vetro, come sonno li altri colori che sonno incorporati.”8 Il terzo fascicoletto del manoscritto n. 797 dell’Archivio di Stato di Firenze (seconda metà del ‘400) insegna a “fare rosso a modo della Magna Bassa” ma non fornisce i dati relativi alla composizione del vetro.9
I muranesi impararono a fare il “color rosechiero che ancora non è stato scoperto a Murano” da un giovane lorenese alla fine del ‘400.10
Neri cita il “rosechiero” nel Libro VII, tra le “materie dell’arte vetraria oggi molto occulte et a pochi note.” In quest’ultima parte della sua opera Neri ha raccolto “ricette che solo in parte riuscì a sperimentare e quindi sono a volte inconsistenti o errate.”11
Nel ricettario Miotti-Darduin, tra i segreti ricavati “dalli libri et altre carte” del padre di Darduin, morto nel 1599, c’è anche la ricetta “a far Rosecchier buono et perfettissimo,” che introduce nella miscela col rame una materia del tutto insolita per i vetrai di allora: l’oro calcinato.”12 Questo rosso, che tende al viola, verrà chiamato rubino. Il ricettario insegna anche “a calcinar l’oro che va nel rosecchier,”13 “a calcinar l’arzento che va nel rosecchier et nella calcedonia,” “a calcinar il stagno che va nel rosecchier et anco nella calcidonia,” “a calcinar il rame che va nel rosecchier.”
Una ricetta del 1554 “a far rosechier” di un manoscritto (scritto nel 1591 dal muranese Anzolo Bortolussi) trovato recentemente a Firenze indica: “torai oro cioè [oppure?] rame calcinado” e “arzento cioè stagno calcinado.”14 La ricetta non dà alcuna indicazione utile perché è troppo vaga, ma è molto interessante l’introduzione dell’oro e dell’argento: oro al posto del rame e argento al posto dello stagno sarebbero un’anticipazione rispetto a Miotti-Darduin.15
Neri insegnava a calcinare l’oro in una ricetta per fare “rosso trasparente,”16 ma poi non dava istruzioni tali da poter ottenere un rubino soddisfacente, e infatti concludeva la ricetta con una raccomandazione: “Però si esperimenti per trovarlo.” Kunckel riuscì a fare il rubino all’oro, ma un suo collaboratore infedele gli rubò il segreto. “Ora che il rubino è affatto comune io non ne faccio più, mi basta averne tratto il maggiore e miglior guadagno, il restante lo lascio ad altri”—scriveva in Collegium physico-chymicum experimentale, oder Laboratorium chymicum, edito postumo nel 1716.17 Non ne fornì mai la ricetta.18
Uso della “zaffera”
Alcune semplici ricette di Miotti per smalto nero con zaffera19 e manganese sono proposte anche da Neri, con l’approvazione di Kunckel.
Se alla ramina ben arsa (ramina nera cioè ossido rameico, CuO; Neri la chiama ramina di tre cotte) si aggiungeva scaglia di ferro sia Miotti che Neri ottenevano vetro verde.20 Con l’aggiunta di zaffera invece ottenevano vetro acquamarina. Nella ricetta “A Far acqua marina bellissima” di Miotti il rapporto CuO/Zaffera è di 32, mentre nella ricetta di Neri “Acqua marina in cristallo artifiziale, altrimenti detto bollito” (Capitolo XXVI) è di 24. Le analisi fatte su alcune perline e scarti di lavorazione turchesi semi-opache (acquamarina con aggiunta di opacizzante) trovati nella laguna di Venezia databili tra la seconda metà del XV e gli inizi del XVII secolo danno rapporti simili.21
Vetro opaco
Miotti tratta poi “delli colori in corpo,” cioè dei vetri opachi, nel capitolo intitolato “Delli colori in corpo et prima del bianco”; “per fare smalto bianco in somma bontà” si prendeva “fritta de cristallo che sia bella et bianca lire 12, calcina fatta di piombo e stagno […] lire 12,“ si fondeva, si cavava in acqua e si rifondeva per affinarla. La calcina di piombo e stagno, ottenuta fondendo ad alta temperatura una miscela di stagno metallico e piombo metallico, si chiamava anche “calcina da lattimo”; serviva per “li smalti bianchi (lattimi), lattado (turchino) et altri colori in corpo.” Neri, nel libro terzo, insegna a fare lattimo e nel libro sesto utilizza la “materia con la quale si fanno tutti gli Smalti,” la calcina di piombo e stagno, per “fare tutti gli Smalti da Orefici.“
Tra i “colori in corpo,” Miotti propone molte ricette di giallo in cui alla calcina di piombo e stagno aggiungeva soltanto minio e vetro di piombo, o meglio anche antimonio e tuzia (ossido di zinco). Neri presentava, tra gli “smalti da orefici,” una ricetta per “smalto giallo” fatto con piombo e stagno e fritta di cristallo a cui aggiungeva poca “gruma di botte di vino rosso” (tartaro) e pochissimo manganese; in un’altra (tra le ricette di vetro di piombo) insegnava ad ottenere “colore di giallo d’oro in vetro di piombo” con 16 libbre di “fritta di cristallo,“ 16 libbre di “calcie di piombo,” 6 oncie di “ramina di tre cotte” (ossido rameico: CuO) e 2 “denari”22 di “croco di Marte” (ossido ferrico, “che gli toglie il verdeggiare”), non approvata da Kunckel che pensava che con le dosi indicate si ottenesse vetro verde e suggeriva di invertire le quantità di rame e ferro.
La ricetta di Miotti “a far rosso in corpo” con “ferruggine” e rame rosso (ossido rameoso: Cu2O), che però “risulta incompleta rispetto ad altre dello stesso ricettario”23 e Darduin stesso dubita della riuscita, si ritrova con lo stesso titolo in Neri. Si tratta di un colore che richiede particolari attenzioni e il fiorentino avverte: “Questo è colore fastidioso, però [perciò] si usi ogni diligenza nel farlo e anco nel lavorarlo.”24 “La tecnica di colorazione necessita di forti riducenti; il colore è prodotto da nanoparticelle di rame metallico che si separano dal fuso, dove il rame è dissolto in forma ionica, solo in condizioni riducenti (carenza di ossigeno) molto spinte.”25 “A seconda del tenore di rame e delle dimensioni dei colloidi il vetro finale è trasparente od opaco.”26
Tra i colori “in corpo” di Miotti è interessante la ricetta “A far smalto da muro bello,” un semilavorato, cioè un vetro bassofondente con alta percentuale di cobalto che serviva come pigmento colorante, che indica una quantità molto alta di tartaro (cioè fondente potassico).27 Non c’è corrispondenza in Neri.
Vetro al piombo
Nella sezione successiva il ricettario muranese si occupa di vetro al piombo.28 Tre ricette propongono SiO2 e PbO con rapporti varanti tra 1/2,5 e 1/4 in modo da ottenere vetro più o meno duro.29 Poi alcune ricette insegnano “a far zallolin”30 ed altre a fare vetro verde. Neri, con più fantasia, impiega il vetro al piombo per ottenere varie colorazioni perché “in materia di colori è il più vago e nobil vetro di tutti gli altri vetri che oggi si faccino nelle fornaccie, poiché in esso i colori imitano le vere gioie Orientali, cosa che né in cristallo, né in altro vetro così si può fare.”31 Ma non conosce il “zallolin,” semilavorato bassofondente da aggiungere in polvere al vetro incolore fuso per ottenere i vetri di colore giallo e arancio; neppure Kunckel lo cita.
Circa il vetro al piombo, secondo Neri si poteva “tirarlo in canna per far conteria,“ ma anche utilizzarlo per fare “vasi diversi da bere o per altri vasi.“ Merret invece scriveva nel 1662 che le vetrerie inglesi non lo facevano a causa della sua fragilità e Kunckel aggiungeva: “On peut sur le chapitre 61 (il primo dei capitoli dell’Arte vetraria di Neri relativi al vetro al piombo), s’en tenir à ce que dit Merret, que le verre de plomb n’est ni utile ni d’usage, parce que son peu de consistance empêche qu’on n’en puisse former des vases et qu’on ne puisse le tailler pour en faire des pierres propres à imiter les véritables.”32 E infatti Miotti lo suggerisce per lavorare a lume e fare pasta per perle ed orecchini. Tra queste ricette è interessante quella “A far pasta da perle et recchini torbida, cioè con la nuvola inventata da me et riesce bellissima” che prescrive “alume scagiolla” cioè gesso come leggero opacizzante.
Calcedonia
Il vetro variamente colorato a imitazione dell’agata chiamato “calcedonia” fa la sua comparsa a Murano intorno alla metà del ‘500 e l’invenzione è attribuita ad Angelo Barovier.33 Miotti riporta una sola ricetta di calcedonia34, che lui chiama “calcindonia,” fatta con minio, scaglia di ferro, ramina rossa, stagno calcinato e argento calcinato. Fornisce anche l’indicazione “A calcinar l’arzento che va nel rosecchier et nella calcedonia” (“fogli sottili di argento puro vengono sciolti in acido nitrico bollente; il liquido risultante lo si versa in una scodella invetriata contenente acqua salata. Si formerà un precipitato di cloruro d’argento”).35 Darduin suggeriva di aggiungere l’argento due o tre ore prima di cominciare a lavorare il calcedonio;36 allo stesso tempo raccomandava di non aspettare troppo, perché il vetro rimane “variegato per una durata di quattro ore.”37
Neri dedicava a questo argomento l’intero secondo libro, “nel quale si mostrano i veri modi di fare il calcidonio in colore d’agata, e il modo di fare l’acqua forte e l’acqua regia necessarie in questa materia.”38 Neri proponeva procedure molto complicate e indicava più componenti,39 tra cui zaffera e manganese. Egli osservava che “se durante la lavorazione il vetro diventasse trasparente e il colore “si smarissi” bisognava sospendere il prelievo e tornare ad aggiungere altre sostanze riducenti.”40
Mosaico
A questo punto Darduin ricavava (e Miotti diligentemente copiava) da “un libro vecchio dei caneri scritto l’anno 1523” alcune indicazioni sui mosaici. La più interessante (e ancora attuale) insegna a fare “musaico d’oro.” Si preparava una sfera sottile con due parti di vetro sodico e una di vetro di piombo, si rompeva e sui frammenti veniva applicata, con chiara d’uovo, una foglia d’oro; si copriva con vetro metà sodico e metà piombico: si pressava bene e si metteva a ricuocere nell’era. Neri non scriveva nulla sui mosaici.
Venturina
Tra le ricette che Darduin ricavava da “un altro libro” la più importante è quella “per far la pasta stellaria overo venturina.” Non era del tutto convinto e subito dopo aggiungeva una ricetta con alcune modifiche; Miotti copiava tutto. Si otteneva fondendo in padella vetro bello comune e aggiungendovi poi, un po’ alla volta con gradualità e mescolando ogni volta, calce di piombo e stagno, ossido di rame rosso (ossido rameoso) e “scaglia” cioè battitura di ferro delle fucine dei fabbri. Si chiudeva bene il forno affinché non entrasse l’aria, dato che era necessario un ambiente riducente, e si spegneva il fuoco; dopo alcuni giorni si apriva il forno e si rompeva il crogiolo. L’esito era incerto ma se tutto era andato bene si estraevano grossi pezzi di pasta di vetro scintillante di cristalli di rame metallico.41 Era la ricetta più pericolosa tra quelle che il ricettario Miotti poteva trasmettere e sarebbe stato grave se fosse caduta nelle mani dei boemi.
Kunckel sapeva dell’esistenza di questo “bellissimo vetro che sembra spruzzato con oro, che gli italiani chiamano Lavanteri, che è tenuto in gran segreto a noi tedeschi,”42 ma non lo sapeva fare.
Conclusioni
L’operaio della fabbrica di Daniele Miotti, fuggito all’estero nel 1754 con una copia tratta dai libri del suo padrone, avrebbe potuto divulgare, soprattutto in Boemia, segreti importanti? Per capirlo mi sono basato sull’ipotesi che le ricette fossero quelle che meno di un secolo prima il nonno di Daniele aveva copiato dal ricettario di Giovanni Darduin. Come è stato osservato, non si può essere sicuri che sia così, ma non mi sembra pensabile che nella fabbrica che nonno Miotti aveva eretto proprio quando era venuto in possesso delle ricette43 se ne fossero fatte delle modifiche.
Ho confrontato queste ricette con quelle dell’Ars vitraria experimentalis di Kunckel, nell’ipotesi, plausibile, che il mondo tedesco conoscesse questo testo. Mi sono permesso qualche volta di divagare citando altri trattati vetrari e di fornire, dove mi pareva utile, qualche spiegazione tecnica.
Tra le ricette di vetro rosso (trasparente e opaco) di Miotti era forse pericoloso divulgare quella fatta con l’oro, che Neri non conosceva. Kunckel non ha mai voluto rivelarla, ma lo fece un suo lavorante44.
Neri non conosceva neppure il “zallolin”; neppure Kunckel lo cita. E ambedue non scrivono nulla sul mosaico.
Ma la ricetta più pericolosa tra quelle che il ricettario Miotti avrebbe potuto trasmettere e sarebbe stato grave se fosse caduta nelle mani dei boemi, era quella di “venturina.”
Notes
- Zecchin 2023. ⮭
- Libro secreti di smalti e paste et vivi colori di me VM ricopiato in altro libro maestro. Vincenzo Miotti ad un certo punto scrive: “Io Vicenzo Miotto feci il detto scrivere il lunedì santo lano 1662 adì 3 aprille” e poi riprende la copiatura. Le ultime ricette sono di mano diversa, quella di suo padre, che in chiusura scrive: “meso da me Daniele Miotto sotto li 18 novembre 1669.” (Ms. in collezione privata; ne possiede fotocopia la Biblioteca della Stazione Sperimentale del Vetro di Murano, Ricettario 17/05.) ⮭
- Zecchin 1986. Giovanni Darduin nel 1644 trascriveva ordinatamente le ricette di suo padre morto nel 1599, aggiungeva altre ricette trovate “su un libro vecchio delli caneri” e in un altro libro e nel 1654 riportava alcune ricette che bisognava provare, ma riteneva accettabili. C’è una seconda parte, composta da un centinaio di ricette, riconoscibile per la diversa grafia, riportata da autore ignoto tra il 1693 e il 1712. ⮭
- Kunckel 1689. ⮭
- “La colorazione colloidale è dovuta alla dispersione nel vetro di particelle aventi diametro notevolmente inferiore alla lunghezza d’onda della radiazione visibile. La colorazione dipende dalla natura, dimensioni e concentrazione delle particelle” (Polato e Verità 1999, 286). Si ottengono le colorazioni rosse e rosate mediante l’aggiunta di oro, rame, selenio, introdotti generalmente in forma di ossido, ridotto poi a metallo. Per gli altri colori c’è la colorazione ionica: si aggiungono alla miscela vetrificabile piccole quantità di ossidi metallici che si sciolgono nel fuso vetroso; “a temperatura ambiente lo ione metallico presente nella struttura del vetro assorbe alcune radiazioni dello spettro visibile e il vetro assume la colorazione complementare prodotta dalle radiazioni dello spettro visibile non assorbite. Si ottengono così […]: il blu con l’ossido di cobalto, il verde con l’ossido di cromo, il viola con l’ossido di manganese, l’azzurro acquamarina con l’ossido di rame, il fumé con ossido di ferro e ossido di manganese” (Falcone, Hreglich e Profilo 2012, 4). ⮭
- “Il meccanismo di formazione dei microcristalli di rame è particolarmente complesso in quanto il trattamento di riduzione dell’ossido di rame a metallo viene sviluppato nella fase finale della fusione” (Moretti, Gratuze e Hreglich 2010, 30). ⮭
- “Secreti per lavorare li vetri secondo la dottrina di Ma.ro Antonio da Pisa singolare in tale arte,” Archivio Comunale di Assisi, codice n. 692. ⮭
- Veniva messo vetro rosso solo in una faccia della lastra. “Le lastre che se ne ottenevano si prestavano a speciali effetti decorativi, eliminandone lo strato colorato in determinate zone di superficie, secondo un procedimento che Antonio da Pisa […] descriveva” (Zecchin 1987–1990, 3:228). ⮭
- Zecchin 1987–1990, 3:223. ⮭
- Zecchin 1987–1990, 3:228. È stata analizzata a composizione di vetri da finestra colorati del XII–XIII secolo della città di Acri. Ė simile a quella dei vetri veneziani, tutti con fondente sodico, tranne i vetri rossi che sono potassici. Questi venivano importati dalla Francia (Occari et al. 2023). ⮭
- Neri (1612) 1980, xxx. ⮭
- Bisognava lavorare con molta cura dieci libbre di fritta sodica bianca (fonderla e lasciarla raffreddare tre volte e ogni volta traghettarla in acqua), aggiungendovi un’oncia di sublimato (cloruro mercurico), due once di ramina rossa, un’oncia di orpimento (solfuro d’arsenico), un’oncia di sangue di drago (resina di color rosso), due once di ossido di stagno, mezza oncia di argento calcinato, tre carati di scaglia di ottone o di orpello con altrettanta quantità di tartaro crudo, ventotto carati (un carato corrispondeva a 0,205 g) di oro calcinato e (se si riteneva necessario) un po’ di manganese. La piccola quantità, circa 5 kg (la libbra equivaleva a 0,477 kg e l’oncia era la sua dodicesima parte), di vetro fa pensare che fosse destinata al settore delle perle e delle gemme vitree. ⮭
- In un crogiolo nuovo si alternavano strati di “sal commun pesto” a fogli d’oro e lo si metteva in un forno a riverbero; bisognava cambiare più volte il cloruro di sodio finché le foglie d’oro erano calcinate diventando friabili. Questo procedimento per calcinare l’oro è indicato anche in Sol sine veste, un piccolo trattato scritto nel 1684 da J. C. Orschall, ispettore delle miniere del Principe di Hesse. Dopo una calcinazione di otto ore egli aveva scoperto che il sale si era tinto di un bel color porpora. (Zecchin 2010). ⮭
- Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze, Ms. II.IV.644, c.7r; riprodotto in Wheeler 2022, 113. Trascrivo le prime righe: “Al nome di jesus e di santa maria [sic] 1554 adi 10 di maggio a far rosechier jo lo provato. Torai fritta comuna che sia tenera L. 9 sotil e torai oro cioe rame once 2 calcinado e arzento cioe stagno once 2 calcinado et metti in tuo padelato che non abia ne tropo ne poco fogo…” Il ricettario insegna anche “A calcinar l’oro cioe rame che va nel rosechier” (Wheeler 2022, 126). Darduin provò, con risultato soddisfacente, a fare nel 1618 “Rosechier in un altro modo” (che “sarà buono sopra il tuo oro di 22 carati”), che è interessante perché le quantità della fritta comune, rame e stagno (non cita oro e argento) e il procedimento di fusione sono uguali a quelli di Firenze. ⮭
- Tre ricette di rosso all’oro compaiono già nel manoscritto bolognese Segreti per colori della prima metà del XV secolo (“Ad fatiendum musaicum rubeum,” “Ad fatiendum musaicum rosatum,” “Ad fatiendum musaicum granatum”; Merrifield 1967, 533), ma sono del tutto inconsistenti, e Antonio Averlino detto Filarete nel suo Trattato di Architettura, composto tra il 1458 e il 1464 dopo aver a lungo soggiornato a Venezia, dava qualche indicazione tecnica sulla colorazione del vetro e scriveva, senza fornire alcuna precisazione, che “l’oro dicono ancora che fa colore” (Trattato di Architettura di Antonio Filarete, Biblioteca Nazionale di Firenze, Magliabecchiano; vedi Zecchin 1987–1990, 2:271). ⮭
- In un’altra ricetta Neri faceva “Rosso trasparente in vetro” col manganese. ⮭
- La frase è tolta da Opera chimica cioè studio e lavoro sopra metalli e minerali introdotto ed ampliato dal sig. Giuseppe Briati a maggior beneficio dell’arte vetraria conservata all’Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, busta 817. In realtà è la traduzione dell’opera di Johannes Kunckel (Kunckel 1716). ⮭
- Così commentava le indicazioni di Neri: “Cette méthode qui est chère & précieuse a été éprouvée sans succès par bien de gens; il faut queque chose de plus pour que l’or donne au cristal sa couleur & pour qu’il le change en Rubis ou en Escarboucle; il n’est pas vraisemblable que nostre Auteur y soit pavenu de cette manière.” Riporto dalla traduzione francese dell’opera di Neri, Merret e Kunckel fatta nel 1752 da M.D***, cioè Paolo Thyry, barone d’Holbach; Neri, Kunckel e Merret 1752, 266. ⮭
- Miscela di sabbia silicea e ossido di cobalto. ⮭
- “La colorazione del vetro mediante il rame, sotto forma di ossido o di metallo, risale ai primordi della tecnologia vetraria. L’ossido di rame in forma ossidata colora il vetro in verde-blu e non ci sono particolari difficoltà ad ottenere questo colore, sia in vetri trasparenti che opachi, mediante l’introduzione nella ricetta del relativo ossido (CuO – ossido di rame nero) purché l’ambiente in cui avviene la fusione sia ossidante. In ambiente riducente il rame viene ridotto a Cu+ (Cu2O – cuprite) o addirittura a metallo che precipitano nel vetro in forma colloidale o microcristallina e allora il colore passa al rosso” (Moretti, Gratuze e Hreglich 2010, 29–30). ⮭
- Verità, Zecchin e Tesser 2022, 13–23. ⮭
- Un denaro era la ventiquattresima parte dell’oncia. L’oncia era un dodicesimo di libbra. ⮭
- Zecchin 1986, 145. ⮭
- Bandiera et al. 2022b. ⮭
- Bandiera et al. 2022b. A Ravenna gli stessi autori hanno presentato anche lo studio Riproduzioni in laboratorio del vetro rosso bruno opaco; Bandiera et al. 2022a. ⮭
- Moretti e Hreglich 2007, 174. “Il rosso trasparente al rame, “rosechiero,” si ottiene con percentuali di Cu2O e Fe2O circa dieci volte interiori rispetto a quelle per il vetro rosso opaco” (Moretti e Hreglich 2007, 175). ⮭
- Si preparava una fritta con 300 libbre di tartaro nero e 90 libbre di ciottoli del Ticino. 200 libbre di questa fritta venivano mescolate con 85 libbre di zaffera ben calcinata. ⮭
- Alla fine del Seicento i muranesi cominceranno ad usare il piombo nelle loro composizioni per vetro soffiato (vedi la seconda parte del codice Darduin, composta tra il 1693 e il 1712 da un ignoto vetraio, non copiata da Miotti). Il vetro al piombo era ben conosciuto a Murano già da prima, ma veniva adoperato per smalti, canna, mosaico. ⮭
- Era un semilavorato che Darduin suggeriva di conservare “ai tuoi bisogni,” dopo averlo cavato in acqua. ⮭
- Il “zallolin” si poteva ottenere con vetro di piombo, minio, calcina di piombo e stagno (non c’è praticamente differenza con il giallo “in corpo”). Colorante e opacizzante in questo caso è lo stannato di piombo, ma si poteva usare anche l’antimoniato di piombo, come nella ricetta per “zallolin per depenzer” (con ossido di piombo, antimonio, tuccia [ossido di zinco], senza calce di piombo e stagno). Il “zallolin” era un pigmento colorante usato in pittura, che poteva essere utilizzato anche come colorante del vetro (Salerno e Tommasi Ferroni 1999, 295). Lo stannato di piombo e l’antimoniato di piombo presentano l’inconveniente di decomporsi a temperature superiori a 1000–1100 gradi ed era quindi preferito agire in due fasi: prima si preparava il “zallolin” e poi lo si macinava e aggiungeva al vetro fuso tenuto a bassa temperatura (Moretti e Hreglich 2007, 173–174). Dopo le ricette copiate da Darduin Miotti ne riporta una decina di originali. Tra queste c’è una “partia del zallo in corpo” e l’indicazione “per far lanima del detto zallo” (piombo brusado L 1:½, antimonio L 1:-, tuttia L -:½, calcina L 1:-), che non forniscono informazioni nuove ma il nome “anima” che verrà poi sempre usato. ⮭
- Neri insegnava a farlo con “calcina di piombo libre quindici e libre dodici di frita di cristallo o di rochetta o vero polverino, secondo i colori si vogliono fare.” La “fritta di cristallo” la otteneva con il 60% di “tarso stacciato fino” e il 40% di “sale di polverino pesto” purificato; quindi il suo vetro al piombo risultava composto all’incirca con il 56% di litargirio, il 26% di silice e il 18% di carbonato di sodio. ⮭
- Neri, Kunckel e Merret 1752, 155–156. Kunckel concordava dunque con Merret che “il vetro di piombo non è utile e non si usa, perché la sua poca consistenza impedisce che se ne possano fare dei vasi e che si possa tagliarlo per fare pietre d’ imitazione; aggiungete – proseguiva – che il peso di questo vetro è molto maggiore di quello delle pietre naturali; bisogna però convenire che se ne possono ricavare dei colori molto belli, perché è tenero e non può sostenere temperature così alte come gli altri tipi di vetro.” ⮭
- Zecchin 1987–1990, 3:197–232. ⮭
- Sono due, ma Darduin alla fine dell’altra scriveva: “A questa io li do pochissima fede.” ⮭
- Zecchin 1986, 163. Nella ricetta muranese l’argento “deve intendersi come un sale d’argento e non come l’ossido (Moretti e Toninato 2001, 47). Bisognava “introdurre l’argento nel vetro in una forma chimica facilmente solubile in quanto l’argento metallico non lo è; l’ossido è difficilmente ottenibile e inoltre non è stabile […]. L’argento sciolto nel vetro deve inoltre trovare un ambiente riducente […]. In questo modo si ottiene la colorazione giallo bruna tipica dell’argento” (46). ⮭
- “La riduzione dell’argento […] è una reazione che richiede un certo tempo e la variegazione del calcedonio è conseguente al cogliere il vetro, tenuto a temperatura piuttosto bassa, prima del completamento di questa riduzione in tutta la massa” (Moretti e Toninato 2001, 49). ⮭
- Moretti e Toninato 2001, 48. ⮭
- Nel 1602 in una fornace pisana dove alcuni vetrai muranesi facevano canna da conteria, Antonio Neri faceva le sue composizioni vetrarie. Il vetro lo conosceva, visto che si sa che faceva “calcidonia l’anno 1601 in Firenze al Casino della fornace de’ vetri,” ma l’occasione di vedere produrre canna di vetro dei più svariati colori, com’era quella necessaria per le conterie, era un’occasione da non perdere. Neri era alchimista e probabilmente la preparazione del calcedonio l’aveva affascinato per tutta la fase preparatoria della miscela (con nitrato d’argento, mercurio, cloruro d’ammonio e coloranti vari) da aggiungere al vetro in fusione, ma da quando fu a contatto con i muranesi si appassionò agli smalti di vetro e alle conterie. Che questa passione si sia sviluppata in questo periodo è ben evidente nelle lettere che gli scrisse l’amico Emanuele Ximenes. (Zecchin 2005). ⮭
- Kunckel, circa la terza maniera di fare calcedonio di Neri, osservava: “L’Auteur parvient ainsi à rendre sa composition plus difficile & plus couteuse, tandis qu’il auroit pû s’y prendre d’une façon plus aisée & réussir beaucoup mieux & à moins de frais” (Neri, Kunckel e Merret 1752, 132). ⮭
- Moretti e Toninato 2001, 48. ⮭
- “Se al vetro rosso opaco contenente nuclei di rame metallico si fa subire un trattamento termico di lento raffreddamento si può avere ingrossamento dei cristalli, con la formazione dell’avventurina caratterizzata dalla presenza di stelle brillanti in un insieme di colore rosso bruno-caramello. […] L’avventurina rientra nella categoria dei vetri rossi al rame in quanto egual è l’elemento che si forma e cioè il rame metallico. La differenza consiste nelle dimensioni dei nuclei coloranti che sono a livello colloidale nei vetri rossi e sotto forma di cristalli dispersi in tutta la massa nell’avventurina. Inoltre i vetri rossi non necessitano del lento raffreddamento e in vetro può essere prelevato direttamente dal fuso con solo un leggero trattamento termico in fase di lavorazione per sviluppare il colore” (Moretti, Gratuze e Hreglich 2010). ⮭
- Kunckel 1689, 471. ⮭
- Zecchin 1987–1990, 2:189–193. ⮭
- Lo scriveva egli stesso (Kunckel 1716). ⮭
Riferimenti Bibliografici
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